Ancora sul fiume: Penelope Fitzgerald e Paolo Malaguti
15 Maggio 2023 § Lascia un commento
“La casa sull’acqua” di Penelope Fitzgerald e “Se l’acqua ride” di Paolo Malaguti sono due libri molto diversi, pur condividendo come sfondo il fiume.
Il libro di Penelope Fitzgerald ci riporta sul Tamigi, non più luogo di partenza per grandi viaggi nel mondo, ma un possibile luogo di vita. Viene infatti descritta la piccola società degli abitanti delle chiatte, fatta di creature né di terraferma né di acqua. La natura borderline è la caratteristica dei personaggi del romanzo, tipici rappresentanti di società londinese degli anni sessanta, artisti, dropouts, borghesi alla ricerca di un way of life alternativo. Il molo rappresenta la precaria appendice alla terraferma sul quale sono ormeggiate le chiatte, che appaiono, come le vite dei personaggi, ruderi da riparare. Nel descrivere le vicende esistenziali dei suoi personaggi Penelope Fitzgerald è molto sobria e distaccata, senza esprimere giudizi diretti, e sembra tuttavia affermare che non si scappa dalle conflittualità dell’esistenza.
“E ora la lite seguiva il proprio impeto, e ancora una volta sembrava che fosse in corso un processo, con entrambi come imputati, ma anche con funzioni di investigatori della specie più bassa, sciagurati prezzolati che rivoltavano i sassi per trovare dov’era sepolto il marcio”.
La scrittura della Fitzgerald è scorrevole e mai noiosa.
“Le chiatte del Tamigi, fatte di legno vivo che cedeva e scattava reattivamente davanti al vento, erano a loro agio sul fiume più di qualsiasi altra cosa. Al loro scricchiolare e brontolare si aggiungeva una nota nuova, paragonabile alla musica. Come la marea si alzò, il vento lacerò le nuvole sopra di loro e spinse un possente gonfiore sull’acqua, così che si misero a rollare come una volta avevano rollato in mare.
Nenna e Martha avevano assolutamente proibito a Tilda di salire sul ponte. Esiliata nella cabina, lei se ne stava lì distesa piena di gioia, avvertendo il folle desiderio della vecchia barca di uscire di nuovo in mezzo alla corrente. Ogni volta che la Grace si sollevava sulla piena, avvertiva la catena dell’ancora che si tendeva al limite massimo.
«Andiamo tutti a terra», chiamò Nenna, «la Rochester è già andata. Prendiamo solo una borsa, torneremo a prendere il resto quando sarà sceso il vento».
Tilda si mise l’eskimo. Pensò che erano tutti dei vigliacchi.
Nessuno sapeva che Maurice era a bordo, perché non si vedevano luci. Pur non essendo certo un bevitore abituale, quella notte se ne stava seduto con una bottiglia di whisky, pronto al peggio.
Non era la natura incerta del suo modo di procurarsi il pane che lo preoccupava, né le visite della polizia, anche se due volte era stato invitato ad accompagnare gli agenti alla stazione. Finora non avevano chiesto un mandato per perquisire la barca, ma se anche lo avessero fatto, a Maurice non importava. Ancor meno temeva la tempesta. Il rischio e il ridicolo erano necessari alla sua vita, altrimenti la sensibilità lo avrebbe sopraffatto”.
Il libro che non mi ha tuttavia entusiasmato, forse perché sono stato molto coinvolto dal libro di Paolo Malaguti, “Se l’acqua ride”.
Non conoscevo Paolo Malaguti ed è stata una felice scoperta, un autore da annoverare tra stimati scrittori veneti (Meneghello, Zanzotto, Parise, Trevisan).
Malaguti riesce ad evocare il mondo della provincia veneta sul finire degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta in maniera molto fervida; molto accurata la descrizione della famiglia veneta, la madre, il padre e soprattutto il nonno, sono personaggi molto vivi, così come il lavoro dei barcaioli, colto nel momento in cui è destinato a sparire.
Il tema delle trasformazioni personali (il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, l’invecchiamento), del paesaggio (dalla civiltà contadina a quella industriale) e della società (gli inevitabili cambiamenti generazionali imposti dal tempo) sono indagati con amore e perizia:
“di certo i barcari mantengono un che di foresto, quasi di misterioso”.
Un mondo così prossimo eppure così strano, fatto di approdi e squeri, pontili e chiuse, la cui pericolosità è sancita dal divieto assoluto, ai bambini del paese, di andare a giocare lì nei pressi. Divieto la cui infrazione non è sanzionata con le 20 lire di Oio, ma con lunghi rosari di schiaffi e sleppe e crogne e pappine da parte delle madri, e con singole, ma non lievi, pedate nel sedere da parte dei padri.
Il timore e il rispetto per l’acqua e le barche sono inculcati pure attraverso i racconti delle nonne. Storie raccapriccianti di bambini annegati di fronte all’Arco di Mezzo, schiacciati dal carico per essere incautamente andati a giocare nella stiva, rapiti (destino peggiore della morte, a quanto è dato intendere) dai foresti sempre presenti nei porti, anche in quelli fluviali. Gente con cui è meglio non avere nulla a che fare, poco importa che siano furlani ubriaconi, romagnoli attaccabrighe o, peggio che peggio, veneziani sporcaccioni.
In questo passo vediamo come l’autore riesca a utilizzare capace di utilizzare un linguaggio che si nutre del latte del dialetto, i termini dialettali infondono maggiore potenza espressiva.
Ho molto apprezzato il tono lirico, mai sdolcinato con il quale Malaguti descrive il paesaggio, come traspare da questi passi:
“Novembre, comunque, non è un mese che si presti a facili entusiasmi: le ultime giornate di sole e di azzurro risalgono ai primi di ottobre, dopo si è entrati nel grigio piombo della pioggia lenta e uguale, o, quando va bene, nel grigio cenere delle giornate di caligo, con la stessa luce opaca tutto il giorno, che se non fosse per il suono delle campane non sapresti dire se siano le dieci di mattina o le quattro del pomeriggio”.
“Sotto la neve pane, sotto la pioggia fame, dicono i veci, ma non ha ancora fatto così tanto freddo da immergere la campagna nella morsa della brina, quel freddo che trasforma l’acqua dei fossi in solidi specchi biancastri su cui sfidare gli amici a scivolate. Questo inizio di novembre è insulso come la sciacquatura di botte, e infatti nessuno tra chi ha il purzèl in casa gli ha già fatto la festa, si aspettano gelo e luna giusti, altrimenti salami e musetti appesi al trave vanno a ramengo, il grasso inacidisce, la carne ammuffisce”.
“Le lucciole, dai campi vicini, venivano a decine a bighellonare lungo le sponde erbose. I piccoli globi fluorescenti si duplicavano specchiandosi sul pelo dell’acqua, e provocavano qualche pesce piú curioso o affamato, che guizzava in un breve balzo, invisibile nel buio: lo si poteva cogliere solo dallo sciabordio e dai riflessi delle lanterne ancora accese sulle barche, un istante “prima nitidi, e all’improvviso qui e là turbati da minime increspature”.
“Era da poco passato il mezzogiorno, il sole era alto in cielo, ma l’aria era pulita, e lo scirocco increspava leggermente la superficie dell’acqua, incendiandola di scaglie di luce bianca, accecante”.
Chi, come me, ha vissuto in Veneto non può restare indifferente a simili descrizioni ambientali:
“D’inverno la nebbia è quasi una madre, ti nasconde nel suo grembo infinito, dove bene e male vengono meno, e anche chi tu sia non ha importanza, e perdersi è il più dolce dei destini. Ma d’estate, quando il sole decide di piantarsi in mezzo al cielo, e non scende mai da lí, cucinando per ore, forse per giorni interi la campagna come un bambino che tortura un formicaio, allora la faccenda diventa qualcosa di piú del sudore sulla pelle, del sale che fa prudere le ciglia, del respiro che quasi duole perché a ogni fiato incameri vetro fuso nei polmoni”.
Così come nel leggere la descrizione della laguna veneta mi sono risuonate le note della canzone veneziana Terra e acqua di Luisa Ronchini, ripresa anche da Giovanna Marini, scrive Malaguti:
“Su tutto, però, era l’acqua ad accelerargli la corsa del cuore. Era tanta, e quieta, così diversa da quella dei canali e dei fiumi, dove pare quasi soffrire, stretta tra gli argini angusti. Lí nella laguna l’acqua appare amica, basta saperla conoscere, come si fa con la morosa, sapere quali sono i luoghi che puoi navigare senza problemi, quali invece sono le zone pericolose, dove la sabbia traditora può farti incagliare”.
“E poi era profumata, di un aroma magnetico e profondo, che prendeva al naso per poi scendere alle viscere. Non era semplice freschìn, il sentore di fossi e canali familiare a chiunque viva nella grande pianura, c’era anche la punta della salsedine, gusto salato di vita rapida e guizzante mescolato in strana alchimia[…]”.
“magari è il mestiere di barcaro a renderti un po’ cantastorie, perché passi la vita ad ascoltare il lento e sommesso chiacchiericcio dell’acqua che scivola via lungo le fiancate di larice del burcio”.
Infine vorrei ricordare il brano in cui il protagonista Ganbeto vede per la prima volta Venezia e il passo nel quale risiede,a mio parere, la filosofia del libro:
“Ovunque si volti Ganbeto vede spuntare barriere ininterrotte di palazzi e chiese, facciate e cupole, una selva di finestre decorate, di colonne cesellate, di marmi, di intonaci splendenti al sole fresco della mattinata serena dopo il temporale notturno che anche lì, si vede dalle pozzanghere, deve avere addolcito l’afa estiva”.
“Forse sta lì il segreto: è vero che tutto cambia, come l’acqua dei fiumi, che un giorno ride chiara e trasparente, l’altro ringhia nera e vorticosa. Ma è anche vero che le cose, per altra via, resistono e sono dure a morire, di nuovo come l’acqua, che resta sempre lei, e fa sempre lo stesso giro”.
La lettura nell’arte, maggio 2023
1 Maggio 2023 § Lascia un commento
La lettura nell’arte, aprile 2023
1 aprile 2023 § Lascia un commento
Una nota di Giacomo intorno a Cuore di tenebra, di Joseph Conrad
14 marzo 2023 § Lascia un commento
La rilettura di questo classico a distanza di anni è stata fortemente condizionata dalla proposta del gruppo di lettura di riflettere sul ruolo del fiume nella narrativa.
La recente lettura de Il ponte sulla Drina di Ivo Andric ha rappresentato per me un inevitabile modello di confronto.
Ho quindi tralasciato la trama conosciuta di un classico che, da sempre, si presta a più livelli di lettura. Ad esempio il significato del viaggio, sia in termini concreti – e in genere il libro di Conrad viene considerato il prototipo della letteratura del viaggio avventuroso (basti ricordare Corto Maltese) – sia in termini simbolici, il viaggio, quello all’interno del proprio mondo interiore o quello come metafora di ogni viaggio umano, dalla luce alle tenebre e viceversa o ancora dalla follia alla ragione.
Ho tralasciato anche l’interessante lettura politica del testo, gli errori ed orrori del colonialismo sono, purtroppo, sempre attuali, e mi sono soffermato sul ruolo del fiume.
Qui il fiume non è il luogo dove si svolge con ritmi eterni la vita di popoli che vivono sulle rive, come quello descritto all’inizio del racconto
Il giorno finiva in una serenità di calmo e squisito splendore. L’acqua scintillava pacifica; il cielo, senza macchia, era una benigna immensità di luce pura; sulle paludi dell’Essex, la foschia stessa era come una garza trasparente e radiosa che, impigliata ai pendii boscosi dell’interno, drappeggiava le sponde basse nelle sue pieghe diafane
o anche dove si legge
Il vecchio fiume riposava imperturbato al declinare del giorno, dopo secoli di onorato servizio reso alla razza che popolava le sue rive, disteso nella tranquilla dignità di una via che conduce ai confini più remoti della terra
ma rappresenta un interminabile viale lungo il quale si muovono dei conquistatori, dei commercianti che sfruttano territori sconosciuti, approfittando della debolezza degli abitanti locali (risibili le freccette contro i fucili).
Dentro un luogo scuro e impenetrabile scorre
un fiume possente, che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del continente.
[…] E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un serpente.
L’immagine del fiume come serpente, oltre all’aspetto morfologico, rimanda alle caratteristiche del serpente, animale infido e pericoloso.
Il fiume, infatti, è pieno di pericoli, tronchi abbandonati, secche, animali e la boscaglia intorno, fitta e misteriosa, nasconde anch’essa pericoli e le foglie a volte sembrano occhi che scrutano. Una sorta di immobilità rende più infido il paesaggio
La foresta, impassibile come una maschera, massiccia come la porta sbarrata di una prigione, guardava con un’aria di sapienza segreta, di attesa paziente, di inaccessibile silenzi.
Nel pomeriggio ormai inoltrato, il volto della foresta appariva cupo, e sull’acqua era già scesa una larga striscia d’ombra.
Sembrava che tutti quegli alberi vivi, allacciati gli uni agli altri da liane e rampicanti, che ogni arbusto di quella viva boscaglia, fossero stati tramutati in pietra, dal rametto più sottile, alla foglia più leggera.
Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendore del sole. Deserte, le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze. Sui banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco. Negli slarghi, le acque scorrevano in mezzo a una moltitudine di isole boscose; ci si perdeva in quel fiume, come in un deserto, e per tutto il giorno, si continuava a incappare nelle secche, alla ricerca del canale, fino a sentirsi stregati e tagliati fuori per sempre da quello che si era conosciuto un tempo, in qualche luogo, lontano da lì, in un’altra vita forse.
E questa immobilità di vita non assomigliava affatto alla pace. Era l’immobilità di una forza implacabile che covava un qualche insondabile disegno. Vi guardava con un’aria vendicativa, piena di risentimento.
Mi pare di poter affermare che ogni luogo, ogni paesaggio, la natura di per sé sia indifferente e tale rimane nel corso del tempo. Sono le vicende umane che danno significato ai luoghi a tal punto che, non di rado, sembra che siano essi a influenzare la storia. Tuttavia i luoghi non sono solo un ricettacolo passivo di tutte le nostre proiezioni, ma supportano proiezioni di segno diverso a seconda di proprie caratteristiche.
L’atteggiamento umano nei confronti dell’ambiente tuttavia non si limita ad utilizzarlo come schermo per proiezioni sentimentali, ma spesso lo trasforma per propri fini, producendo devastazione (guerre) e degrado (inquinamento).
La lettura nell’arte, marzo 2023
1 marzo 2023 § Lascia un commento

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Il ponte sulla Drina secondo Giacomo
21 febbraio 2023 § Lascia un commento
Non posso parlare di questo libro senza non avere prima espresso gratitudine al gruppo di lettura Libripensieri di Rovereto per avermi dato l’occasione di riprendere a leggere un libro che, circa sessanta anni fa avevo, con leggerezza adolescenziale, abbandonato dopo qualche pagina.
A distanza d’anni mi chiedo come abbia potuto ignorare un libro che oggi non solo mi ha molto entusiasmato, ma che considero un grande capolavoro.
Un’opera che mi ha richiamato alla memoria Cent’anni di solitudine, Il signor Mani, Danubio, ma anche il clima di testi fondamentali come la Bibbia o i poemi omerici.
Come ogni opera complessa i rimandi storici, sociologici, psicologici, politici, antropologici, filosofici sono innumerevoli, ma la struttura del testo riesce a contenerli in maniera armonica, grazie a una scrittura fluida e scorrevole, intensamente comunicativa e non di rado lirica.
Per formulare qualche considerazione sull’opera parto dall’etimologia delle parole rivale e pontefice.
La parola rivale indica chi abita nella riva opposta, così come pontefice significa costruttore di ponti e allude al carattere sacro del ponte.
Rivale non vuol dire necessariamente nemico ma prossimamente differente, i rivali si conoscono da sempre e non sono solo geograficamente vicini, il nemico di solito è sconosciuto e viene da lontano.
Nel libro è descritta con una scrittura molto efficace la vita tra le due rive, che lascia scorgere come nel corso del tempo le differenze, a volte, vengano superate con la consapevolezza di condividere lo stesso umano destino, favorendo la cooperazione, a volte assumano carattere fortemente conflittuale per un’angoscia mimetica
“gli avversari s’erano strappati gli uni agli altri non solo le donne, i cavalli e le armi, ma anche le canzoni”.
Ma le ragioni del conflitto originano, in genere, dai centri del potere, il più delle volte lontani dalla vita quotidiana condivisa dagli abitanti delle rive.
Il ponte assume un carattere sacrale perché diviene concretamente il luogo in cui le culture possono incontrarsi, rispettarsi, e il luogo che può permette il superamento della rivalità.
Il ponte è un luogo mitico che unisce e separa nello stesso tempo.
L’aspetto mitico sacrale viene rafforzato dal sacrificio, cardine di ogni religione.
Questo carattere sacro, mitico viene descritto più volte nel corso del libro
“tra la vita della gente della cittadina e questo ponte sussiste un intimo, secolare legame.
I loro destini sono talmente intrecciati gli uni agli altri, che non si possono né pensare né raccontare separatamente”“E il senso e il significato della sua esistenza(del ponte) sembrarono consistere nella sua stabilità. La sua splendida linea nella struttura della città non mutò, così come non mutarono i contorni delle montagne circostanti contro il cielo. Nella successione delle trasformazioni e nel celere fiorire delle generazioni umane, esso restò immutabile come l’acqua che gli scorre sotto. Invecchiò naturalmente anch’esso, ma secondo una scala cronologica assai più ampia non solo della vita umana, ma anche della durata di intere serie di generazioni, tanto ampia che, a occhio nudo, non si poté‚ notare quell’invecchiamento.”
“Trascorsero i primi cento anni, tempo lungo e mortale per gli uomini e per molte loro opere, ma trascurabile per i grandi edifici ben ideati e saldamente fondati, e il ponte con la sua “porta”, e il caravanserraglio vicino ad esso, rimasero e servirono come il primo giorno. Così su di loro sarebbe trascorso anche un secondo secolo, con l’alternarsi delle stagioni e delle generazioni umane, e quelle costruzioni sarebbero rimaste immutate”.
“Così le generazioni si susseguirono accanto al ponte ed esso si scrollava di dosso, come polvere, tutte le tracce che vi lasciavano sopra gli effimeri capricci e bisogni umani, e rimaneva immutato e immutabile dopo ogni evento”.
“Il ponte sembrava infinito e irreale, poiché‚ le sue estremità si perdevano in una nebbia lattiginosa, e i pilastri, in basso, affondavano nell’oscurità; un lato di ogni pilastro e di ogni arcata era fortemente illuminato, mentre l’altro era completamente avvolto nelle tenebre; quelle superfici rischiarate e oscure si intersecavano e si tagliavano con linee aspre, così che l’intero ponte somigliava a uno strambo arabesco creato in un momentaneo giuoco di luci e di tenebre. Alla “porta” non c’era anima viva. S’eran messi a sedere. Lo straniero aveva tirato fuori le carte. Milan aveva aperto la bocca ancora una volta per dire che non si poteva giocare, perché‚ le carte non si distinguevano bene e non si discerneva il denaro, ma il fIore.”
Da questi brani traspare la forza di una scrittura dall’andamento cinematografico, da documentario, ma con una ricchezza di immagini poetiche che alludendo a ciò che non è visibile all’occhio consentono di far rivivere l’esperienza umana in tutta la sua complessità.
Ed è questo, a mio parere, il pregio del romanzo, che non considero un romanzo storico, ma l’esempio più luminoso di cosa si intende per microstoria.
Con questo termine alcuni storici (tra tutti ricordo Carlo Ginzburg) hanno portato avanti ricerche che valorizzano la storia che vive la gente comune, analizzando singoli casi nella prospettiva che vede l’individuo come punto di intersezione tra qualcosa di unico e qualcosa di generico.
Quindi, non la storia, per così dire, con la S maiuscola quale si studia nei libri di scuola, ma la storia di piccole comunità con la singolarità delle singole vite comuni.
Mi sembra straordinario come Andric sia riuscito a fare un affresco della vita comune degli abitanti rivali, con una capacità di immaginazione veramente magnifica,
“la porta è il cuore del ponte, che è il cuore di questa cittadina, che a ognuno deve restare nel cuore”. Essa dimostra quanto gli architetti di un tempo, dei quali le antiche storie raccontano che ebbero a combattere con gli spiriti e con portenti di ogni genere, e che dovettero murare vivi dei fanciulli, avessero sviluppato il senso non solo della stabilità e della bellezza della costruzione, ma anche dell’utilità e della comodità che da quella costruzione avrebbero tratto pure i più remoti discendenti. E quando uno ha conosciuto bene la vita locale e ha ben riflettuto, deve dire a se stesso che in verità sono pochi in Bosnia coloro che hanno le occasioni e i piaceri che possono toccare sulla “porta” a ciascuno degli abitanti della città, anche al più misero Si capisce che la stagione invernale non entra neppure in conto, perché‚ d’inverno il ponte viene attraversato soltanto da chi vi è costretto, e questi allunga il passo e piega la testa sotto il freddo vento che soffia ininterrotto sul fiume. Allora, è chiaro, nessuno si ferma sui terrazzi aperti della “porta”. Ma in ogni altra stagione dell’anno la “porta” è una vera e propria manna[…]”
Nel corso della lettura si ha l’impressione di vivere l’esperienza di una narrazione orale
“Il popolo inventa facilmente le storie e le sparge in fretta, e la realtà si mescola stranamente in un inestricabile groviglio con le storie stesse”.
Una costante drammatizzazione dello scorrere del tempo, della filosofia del panta rei, è quello che l’opera fa respirare.
E la vita sulla “porta” si rinnova sempre e malgrado tutto, il ponte non muta né col passare degli anni né col passare dei secoli, né coi più grandi cambiamenti dei rapporti umani. Tutto scorre su di esso come l’acqua agitata che passa sotto le sue volte lisce e perfette.
Riflessioni su Il ponte sulla Drina di Ivo Andrić, libro del mese di febbraio 2023
17 febbraio 2023 § 4 commenti
Il gruppo di lettura, che si è riunito il 23 febbraio, ha all’unanimità condiviso la bellezza del testo di Andric e delle storie raccontate. Ma le quasi due ore non sono quasi mai sufficienti per indagare approfonditamente le varie parti, e le nostre conversazioni continuano sulla nostra chat di gruppo. Riporto qui un riassunto, fatto su richiesta di R., assente, per dare l’idea di ciò che avviene nella saletta multimediale, ormai da più di 15 anni.
G. “Ora è un po’ difficile ricostruire… è intervenuta per prima E. raccontandoci che aveva letto molti anni fa il libro e che lo ricordava vagamente per l’efferatezza di certe pagine, ha continuato F. dicendo cose sagge e condivisibili sul perché abbiamo letto un gran libro e notando che il leitmotiv del ponte viene ripreso quasi ad ogni chiusa di capitolo, poi A. che ha letto il libro in originale e lo ha situato nella sua esperienza di serba trapiantata in Italia da adolescente significandoci il suo grande valore storico per i popoli balcanici (es. rapimento dei bambini nell’impero ottomano trauma indelebile e tramandato dalle generazioni) poi è intervenuta F. anche lei entusiasta, sottolineando il lato ironico di qualche storia. N. anche lei commossa dalla grande umanità di questi racconti, poi G. che ha anche lui magnificato il testo, il suo essere romanzo storico sì, ma sui generis, perché si concentra sulle micro storie di singoli individui, gente comune, e sul valore simbolico della potente metafora al centro del libro, il ponte che unisce due sponde, due rive opposte, rivali, appunto, come i popoli che convivono quei luoghi; come anche i precedenti interventi anch’io ho sparso qualche voluta di incenso sul libro (nel frattempo M. ci faceva dono di un pratico segnalibro con su il calendario di tutti gli incontri del Gdl Libripensieri). A quel punto, forse, stanco del tono troppo monocorde della serata, G. ci ha fatto notare che Andric nel libro è si narratore onnisciente ma non imparziale, laddove parla del periodo immediatamente precedente al 14, dall’autore vissuto in prima persona, mette in guardia dal nazionalismo e più in generale da ogni ideologia che anteponga idee o astrattezze come confini e nazionalità alla pura, semplice e deliziosa Vita. M. ha letto l’ interessante intervista di Madvejevic su Andric che ha poi postato per chi non c’era, L. ha sottolineato il tono favolistico e il valore esemplare delle storie inanellate da Andric. Abbiamo ricordato il prossimo libro del mese discutendo fra noi il perché del leggere libri in ciclo proprio sui fiumi e il bibliotecario ha spento le luci, lasciando al buio anche due nuovi partecipanti, R. e P., che sono comunque riusciti a guadagnare l’uscita.
F. diceva che ha letto a voce alta i primi capitoli al marito che era assai perplesso… in effetti è un libro senza la trama classica, il manufatto che da titolo al tomo è il fulcro narrativo di una collana di storie molto orali all’inizio, fra il racconto folclorico e le vite esemplari dei santi. Poi avvicinandosi al 900 ,trascolora in romanzo di personaggi più corposi psicologicamente, più moderni. Il tutto senza strambezzi sperimentali, mantenendo una affabilità e una leggibilità che tocca e incanta tutti, critici e lettori comuni, professoroni e postini, donne in carriera e sognanti massaie”.
R: “Condivido tutti i giudizi positivi. Avevo già assaggiato Andric in un suo libretto di racconti ma qui dà il massimo! Un’opera così corposa che attraversa periodi storici diversi, creando attraverso i singoli episodi unità narrative così singolari, profonde e significative è davvero, come dicevi tu, un libro da inserire tra i più importanti. Aggiungo che permette di capire le vicende storiche attraverso le storie minori delle persone. La storia di un paese in cui il passato ha lasciato lacerazioni profonde arrivate fino ai tempi recenti e che Andric ci aiuta a capire con il suo racconto da dentro, così diverso e coinvolgente rispetto ai manuali e alle informazioni spesso superficiali che si hanno di queste vicende, così lontane nel tempo ma così vicine geograficamente”.
G.: Il mio capitolo preferito del Ponte sulla Drina è però il 19, la conversazione notturna nell’agosto del 14, alla vigilia dell’attentato di Sarajevo, di quel gruppo di giovani. Oltre ad essere scritto così meravigliosamente bene che sembra di esserci, oltre a rappresentare qualcosa che tutti hanno vissuto (la sana stupidità della gioventù) è rappresentativo di come funziona l’intero libro:un florilegio di personaggi e situazioni, con un centro, i due contendenti o rivali in amore per la maestrina Zorka. È esemplare come in questo capitolo riesca a rappresentare una pluralità di personaggi pur non perdendo di vista il focus principale, alcuni sono puri nomi (come l’altra maestrina Zagorka) altri sono descritti più minutamente e potrebbero essere loro i protagonisti. Esemplare come dall’episodio al centro del capitolo passa a raccontare una storia d’amore a latere, quella del medico militare austriaco, e in chiusa di capitolo accenni alla protagonista del prossimo capitolo, la locandiera ebrea.Come in un fiume scorrono molte acque e là ristagnano e qua si fanno gorgo, plurali e distinguibili vicino alla riva da cui guardiamo, ridotte ad unità e a fiume se guardiamo lontano, alla prossima ansa, al corso che è già stato passando di qua.
Nei capitoli finali, alla foce della narrazione gli episodi che si intrecciano, ciascuno con la sua etnia, il suo ambiente sociale e il suo perché, sono appunto tanti ma accordati tutti in minore, gli amori, gli affari, le vite, le famiglie e i consorzi, gli imperi decadono e vanno in malora travolti dalla tempesta scatenata dallo sparo di Sarajevo. Forse per questo ho letto subito dopo questo libro di Andric “Il mondo di Ieri” l’ultimo libro di Zweig che rievoca l’ultimo periodo dell’impero asburgico e la sua fine, in generale l’Europa prima della prima guerra mondiale. Due libri diversissimi, certo, ma che si richiamano”.
Abbiamo votato!
4 gennaio 2023 § Lascia un commento
Come di consueto, a fine anno votiamo i libri letti. Quest’anno ci siamo accort* che, inconsapevolmente, abbiamo letto solo scrittori e nessuna scrittrice, abbiamo prediletto la casa editrice Einaudi, e tra i nostri prediletti ci sono forse proprio i libri che hanno un plot di tipo prettamente narrativo.
Il nostro gruppo si è arricchito di nuove lettrici e lettori ed ora siamo un gruppo nutrito (ben 19 componenti) con interessi letterari molto eterogenei.
Nella pagina Il nostro libro dell’anno troverete anche i nostri libri preferiti degli scorsi anni.
Vi aspettiamo lunedì 9 gennaio, alle 20.15, nella saletta multimediale della Biblioteca Civica Tartarotti di Rovereto.
E a tutt* un buon anno di letture!
Buon Natale
25 dicembre 2022 § Lascia un commento

Jacopo Bassano (Bassano del Grappa 1510 circa – 1592) Adorazione dei pastori, 1592 Olio su tela, 421×219 cm Chiesa di San Giorgio Maggiore, Venezia
«Neri Pozza ha scritto che alla fine dei tuoi giorni gli occhi ti erano diventati quasi orbi, ed era per questo motivo che i tuoi ultimi grandissimi capolavori erano “scuri”.
Ma io non credo, Jacopo, che questa sia la ragione di quella maniera di dipingere che i critici dicono “quinta maniera di Jacopo” dove la luce viene sentita come colore e come materia: era il crepuscolo che volevi dipingere, la tua prenotte. Lumeggiature nella notte buia, come uno splendore sovrumano che inizia al mistero arcano».
da Lettera a Jacopo di Mario Rigoni Stern, in Aspettando l’alba, ed. Il Melangolo, 1994
Un viaggio lungo un anno
11 dicembre 2022 § Lascia un commento
Anche quest’anno abbiamo giocato un po’ per fare la mappa dei luoghi dove ci hanno portato le nostre letture. La potete vedere anche voi; inoltre, cliccando sui luoghi, vedrete il titolo associato. Unico assente, Atlante di un uomo irrequieto, di Ransmayr: mondo non è previsto su google maps 😉
Viaggiate con noi?